Può essere una casualità: una giornata in cui, invece di proseguire verso l’abituale luogo di lavoro, si scende ad una fermata a caso, e s’inizia a vagabondare per la città. Finire con il perdersi inesorabilmente, affascinati e divertiti da ciò che curiosità e capriccio stanno mostrando: bene, siete ufficialmente promossi a flaneur. Se poi scrivete per professione, come il maestro Edmund White, potreste produrre un piccolo capolavoro: per Guanda Editore, 2005, pp. 170, euro 12.

Dietro questa specie di guida di Parigi si nasconde il lavoro serio e scrupoloso dello studioso, distillato con la leggerezza del grande narratore. White ci racconta dei monumenti e degli angoli meno noti, della più sublime storia francese quanto di quella più meschina, di scrittori, di mercati, degli ebrei o degli omosessuali in Francia, dei caffè, degli incontri nei parchi negli anni in cui scriveva del suo saggio su Genet.

Un passeggiare per Parigi senza scopo apparente, ma intanto un osservare attento e impegnato: un museo che sta cadendo nell’oblio, i luoghi della vitale, contraddittoria Colette, i vecchi locali dove passò l’incanto esotico di Joséphine Baker, i luoghi di ritrovo dei gay, il Marais con le sue sinagoghe e i ristoranti kasher, l’ambiente creativo e stravagante del Club dei mangiatori di hashish. Al suo riferimento Baudelaire, lo scrittore si ripropone come bohemien moderno, artista in grado di percepire la vera essenza di un posto incantato che neppure chi ci abita ha la pazienza di cogliere nel suo spirito. Una scoperta che salta agli occhi, e stupisce. Per i francesi amare o meno la Piramide del Louvre è una questione politica: se sei di sinistra ti piace, se no niente. Quindi a degli amici americani che gli chiedevano la sua opinione, Edmund White ha risposto, serissimo: “certo che mi piace, sono socialista!”