Una significativa ordinanza pubblicata dalla Corte di Cassazione fa il punto su uno dei fenomeni più odiosi e che costituisce una delle principali battaglie in materia di tutela di diritti da combattere negli ambienti di lavoro e nelle aule giudiziarie. Una decisione che, quindi, detta le linee guida da seguire per la dimostrazione del mobbing in sede giurisdizionale. Per la Suprema Corte con l’ordinanza n. 21328, il mobbing richiede: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti  comportamenti lesivi (Cass. n. 2147/2017, n. 2142/2017; n. 24029/2016; n. 17698/2014).

Il caso sottoposto all’esame della Corte da parte di un dirigente medico che prestava servizio presso la ASL di Lecce, non ha infatti visto accolta la domanda risarcitoria nei tre gradi di giudizio, perché non ha allegato nulla in merito all’intento persecutorio, ossia all’elemento soggettivo unificante la pluralità dei comportamenti lesivi. Si tratta di un precedente che seppur nella sua sintetica motivazione, ricorda quanto sia difficile la prova del mobbing e delle relative condotte, ma chiarisce anche che è un fenomeno che esiste e che può essere combattuto efficacemente con il ricorso allo strumento giudiziario.