Vélez Rubio sembrava più una scommessa che un villaggio. Così isolato che le stelle sembravano abbassarsi per curiosare nei cortili. Anna, astrofisica quarantenne, aveva scelto quel casale per staccare dal suo loft cittadino e dal rumore costante della città. Un mese di silenzio e cielo pulito. Lo scambio era stato veloce: una coppia andalusa voleva provare la vita urbana, lei voleva provare a dormire sotto la Via Lattea senza filtri.

La casa era tutta muri spessi e pareti bianche che riflettevano la luce lunare in modo quasi teatrale. C’erano sedie basse di legno, vecchi arnesi agricoli appesi come reliquie e un telescopio amatoriale abbandonato nella soffitta. Anna non lo toccò. Aveva portato il suo. Ma la prima notte, mentre cercava la galassia M81, captò qualcosa di strano: un suono. Un segnale radio sul suo scanner portatile. Non era interferenza. Era troppo regolare. Come un codice. Come un messaggio.

Passò le notti successive a tentare di decifrarlo. Il giorno parlava con i pochi vicini, che la guardavano come una turista eccentrica. “Se senti voci, è normale,” disse un vecchio al mercato. “Qui le montagne sono piene di echi.” Anna non rispose. Non aveva voglia di folklore. Ma la terza notte, il segnale si trasformò in una voce. Distorta, lontana, ma chiaramente in spagnolo: “No es arriba… está debajo.” Non è sopra. È sotto.

Spaventata e incuriosita, Anna scese nel vecchio scantinato del casale. Trovò un vecchio apparecchio radio, arrugginito ma ancora acceso, come se qualcuno lo usasse ogni notte da un’altra stanza del mondo. Il segnale cessò solo quando lo toccò. La mattina successiva non provò a riaccenderlo. Si limitò a sedersi fuori, guardare le stelle e annotare nel suo diario: “Non tutte le frequenze servono a comunicare. Alcune servono solo a ricordarti che sei piccola.”

Quando lasciò la casa, scrisse un messaggio nel quaderno degli ospiti: “Grazie per avermi prestato il silenzio. Prometto di non decifrarlo troppo.” Poi chiuse la porta piano. Per non disturbare le stelle.