Era una di quelle giornate in cui il caldo appiccicava le idee, e il mare sembrava l’unica cura legittima. Così, senza troppi piani, senza troppe domande, sono saliti su quel regionale delle 9:07 con infradito, zaini scoloriti e occhi pieni di stanchezza cittadina.
C’erano in tutto quattro amici. Di quelli che si scrivono tutto l’anno ma si vedono solo d’estate, quando le agende si svuotano e la nostalgia si fa spazio. Beatrice aveva portato l’anguria tagliata in un contenitore che sapeva di frigo. Marco stava già dormendo dopo due fermate. Chiara parlava troppo, come al solito. E Davide… Davide guardava fuori.
Il treno arrancava tra campi secchi, stazioni dimenticate, baracche con antenne storte. La destinazione era “una spiaggia qualsiasi”, ma il viaggio, come sempre, faceva il resto. Ad ogni fermata salivano altri passeggeri: signore con borsoni, bambini urlanti, turisti che sbagliavano direzione. Nessuno sapeva dove andavano, ma tutti sembravano in cerca di qualcosa.
Beatrice tirò fuori un mazzo di carte e propose il gioco delle domande: “Se potessi vivere ovunque?” “Il sogno che non hai detto a nessuno?” “Cosa cambieresti domani, se potessi?”
All’inizio risero. Poi si fecero seri. Poi risero di nuovo. Quel treno, quel vagone afoso con i sedili graffiati, divenne improvvisamente uno spazio sospeso, dove tutto sembrava possibile. Anche dire la verità.
Quando arrivarono, la sabbia era bollente, il mare era mosso, e il lido più vicino era pieno. Ma nessuno si lamentò. Si sedettero su un muretto, con i piedi nella sabbia, a guardare i bambini giocare e il vento muovere gli ombrelloni.
Beatrice disse: “Forse l’estate è questo. Un treno che non sai dove ti porta, ma con le persone giuste accanto.”
Davide non parlò, ma guardò di nuovo fuori. Stavolta non c’era finestrino: solo mare. Ma bastava.