Quando Clara accettò lo scambio casa, non cercava altro che silenzio. La sua agenda romana era diventata una sinfonia di notifiche, interfono, calore intrappolato nei muri.
L’annuncio diceva: “Chalet in Engadina, a 1.800 metri, vista a 270° su ghiacciaio, silenzio assoluto garantito (rumori naturali inclusi).”
Ad aspettarla, una casetta inclinata dal tempo, con travi scure e vetri perfetti. Nessuna chiave: solo un codice da tastierino e una ciotola per cani mai usata.
Il salotto affacciava su pini e lastre di roccia, e c’era una sedia a dondolo davanti a una finestra così ampia che sembrava spalancarsi nel vuoto.
Nel frattempo, a Roma, Elias si era appena fatto un caffè nella cucina di Clara. Architetto in pensione, viveva nello chalet da sempre. Non aveva mai usato il tram. La finestra della cucina romana dava su un glicine stanco e un cortile dove tre gatti si spartivano i raggi del pomeriggio.
A lui bastava: respirava lo smog con lentezza e imparava il nome delle erbe sullo scaffale.
Clara passava i giorni camminando. Il primo giorno, sentiero 152: silenzio verticale e marmotte come punti mobili sul prato. Il secondo, il ghiacciaio di Morteratsch: ghiaccio bianco, freddo pulito, assenza totale di voce umana.
Una sera, trovò nella dispensa locale un biglietto infilato in una scatola di infusi: “Anche l’altitudine è una forma di lucidità. – Elias”
Non si erano mai incontrati.
Clara cominciò a lasciargli messaggi nascosti: tra le pagine dei libri, dietro un quadretto storto, sotto una tazza.
Elias rispondeva con bigliettini romani trovati nei cassetti: “Attenzione: il basilico non sopporta la noia.” – “Sul terrazzo si sente la notte quando arriva.”
Due settimane passarono come acqua. Nessuno scrisse più messaggi. Clara lasciò un rametto secco di larice sopra il comodino, Elias lasciò un limone sbucciato a metà nel frigo.
Quando tornarono ciascuno a casa propria, le finestre sembravano più grandi.
