Dicembre 1944: la cosiddetta “guerra totale” è ormai persa ma Goebbels non vuole darsi per vinto tanto facilmente e per riuscirci ha escogitato un piano: il Primo dell’Anno il Führer riaccenderà lo spirito combattente dell’opinione pubblica pronunciando un discorso piuttosto aggressivo. L’unico problema è che il Führer non può farlo: ormai malato e depresso evita qualunque esibizione pubblica. L’unica persona che potrebbe aiutarlo in qualche modo è il suo vecchio insegnante di recitazione, Adolf Grünbaum…un Ebreo. Goebbels tira fuori Grunbaum e la sua famiglia dal campo di concentramento di Sachsenhausen e li sistema presso la Cancelleria del Reich. Il tempo passa velocemente e il Führer ha solo cinque giorni per tornare in forma smagliante. Per decenni in Germania sono circolate molte voci e pettegolezzi sul regno di Adolf Hitler ma dopo Mein Führer le cose cambieranno per sempre. Il regista Dani Levy ci offre la sua personalissima e soggettiva lettura dell’epoca con un’interpretazione fittizia e provocatoriamente coraggiosa della storia. Dopo la commedia di grande successo Go For Zucker!, vincitrice di numerosi premi e riconoscimenti, Levy ci dimostra una volta ancora la sua abilità nel trattare temi molto delicati e in Mein Führer riesce addirittura a sezionare gli orrori del nazismo con un umorismo totalmente sovversivo.
A guidare il cast di questa esilarante commedia c’è il bravissimo Helge Schneider, fantastico nei panni di Adolf Hitler accanto all’attore pluripremiato Ulrich Mühe (Le vite degli altri), che interpreta il Professor Adolf Grünbaum. Con severità analitica e con una rinfrescante e sincera mancanza di rispetto Levy va direttamente al cuore e alle radici del fenomeno “Hitler” mettendo in ridicolo gli ufficiali nazisti e buttandoli giù dal piedistallo della documentazione storica, con la piena consapevolezza che spesso la fantasia si avvicina moltissimo alla realtà. Quando Spielberg ha realizzato Schindler’s List, io sono stato uno di quei critici “ortodossi” che hanno alzato la voce contro “la trasformazione dell’Olocausto in un’immagine cinematografica”. Quel film è riuscito a ricreare o a mostrare qualcosa di quella natura, ma la rappresentazione – non priva di una certa autenticità – di quella miseria è stata per me (essendo un ebreo) una grandiosa e deludente bugia. Continua Dany Levy Il dibattito che si è aperto successivamente sul film di Benigni,  La Vita è Bella, ha segnato l’inizio di una nuova era. Era possibile utilizzare l’Olocausto ricorrendo ad una ricostruzione romanzata intesa a creare una nuova prospettiva per offrire un ritratto tragi-comico del rapporto tra padre e figlio? A mio modesto avviso sì! Benigni non ha mai tentato di affermare che la sua rappresentazione di quell’epoca e di quell’orrore fosse realistica ma si è avventurato su un terreno totalmente diverso: con la sua poetica favola ambientata in un campo di concentramento è riuscito a dirci che la fantasia dei bambini è indistruttibile anche in un posto simile”.Il linguaggio megalomane, la teoria hitleriana di una razza superiore e il ruolo di Goebbel nell’ambito della propaganda sono tutti ingredienti più che appetitosi con i quali costruire una tragi-commedia. Naturalmente, Levy non è il primo ad aver fatto una commedia a partire da questi tragici eventi, basti pensare a Il Grande Ditattore o Essere o non Essere