Camilla, traduttrice romana di romanzi rosa, era stanca di sentirsi tradurre storie d’amore e non viverne nemmeno una. Quando vide l’annuncio dell’attico con veranda a Porto — “vista Douro e glicini in fiore” —capì che era questo il suo momento. Lo scambio? Semplice: un’architetta portoghese desiderava invece l’aria rumorosa e caotica di Roma. Dettagli del loft italiano: “luminoso, poco arredato, senza piante”.
Il primo pomeriggio Porto la colpì con la sua luce candidamente dorata: la veranda era davvero coperta da un glicine esploso di colore, sotto il quale un tavolino in ferro battuto pareva invitare a un ritiro poetico. Non c’erano sedie, solo cuscini stesi sul pavimento. Camilla capì che non era un semplice balcone: era un osservatorio dell’anima.
La sera, mentre sorseggiava vino Porto a occhi chiusi, sentì un fruscio. Accanto al lume una pergamena ingiallita: era un manoscritto anonimo, una pagina di romanzo scritta a mano, tratto da un possibile amore vissuto su quella stessa veranda. Le frasi scorrevano sensuali e malinconiche, segnate da mani che pensavano di essere le stesse di un altro lettore. Un romance scritto in nome di qualcuno che non sarebbe tornato.
Nei giorni seguenti, ogni mattina Camilla scriveva una frase, una traduzione a margine, accanto al manoscritto. Ogni sera lasciava sul tavolo una tazza riempita di tè. Nessuno le chiese mai nulla. Le notti erano illuminate dalle luci dei bar sotto, e dai glicini che sfioravano la ringhiera.
Il sesto giorno, la pergamena scomparve. Restevano solo le sue note, sparse su fogli bianchi. Capì che non importava chi avesse scritto quella storia: aveva trovato il suo pezzo. L’ultimo giorno sistemò la veranda, spostò delicatamente i cuscini e lasciò una nuova pagina, con una sola frase in italiano:
“Non serviva salvarne la voce. Bastava ascoltarla.”
E una firma in corsivo: Camilla. Chiuse la porta. Ecco, ora sì, poteva tradurre di nuovo. Ma per un giorno, aveva tradotto se stessa.