Occhi di donna. Belli, fragili e risoluti. Uno sguardo unico su un passato tradizionalista e chiuso, ancora follemente presente negli animi di un’intera nazione, l’India. Nato dalla sceneggiatura scritta da Bapsi Sidhwa per l’omonimo film della regista indiana Deepa Mehta, Acqua (per Neri Pozza, 2006, pp. 206, euro 15,00) racconta la vita di un gineceo nel 1936. In questo luogo sacro, le vedove, perduta la funzione sociale di mogli e di madri, sono ritenute sessualmente pericolose per la moralità della comunità e sono destinate a vivere in penitenza: niente sari colorati, niente capelli lunghi, niente ornamenti, niente dolci e via ogni parvenza di femminilità. Dentro l’Ashram finisce anche la piccola Chuya (Topino), a sei anni fidanzata a un uomo anziano, a sette sposata e a otto vedova. Lei, la protagonista della storia, è circondata da un coro di donne di più generazioni (dalla giovane e infelice Kalyani alla vecchissima Patiraji), accomunate tutte dallo stesso destino. Dopo lo smarrimento iniziale, anche dovuto alla rasatura del capo e all’abbandono forzato, la nostra piccola protagonista semplicemente rifiuta il suo destino e mette a soqquadro l’equilibrio interno della congregazione di vedove. Alla ricerca di una via di fuga tra ironia e pietà, le pagine scorrono veloci, magistralmente scritte e svuotate da ogni eccesso stilistico, delizioso fin nei suoi comprimari. Sullo sfondo, la scissione tra la religiosissima India della tradizione e i moderni insegnamenti di Gandhi, via di riscatto per le vedove, non più costrette al sacrificio per lavare l’onta della morte del marito, miserabili precluse dagli affetti e votate all’elemosina in venerazione del dio Krisna.