Non c’è bisogno di essere fotografi per sapere quando un’immagine ti cambia.
A volte basta entrare in una stanza piena di luce e colori, e lasciarsi attraversare.

È così che ci troviamo, adesso, davanti alla prima grande mostra monografica dedicata a Franco Fontana.
Siamo noi, il pubblico, i camminatori lenti del Museo dell’Ara Pacis che fino al 31 agosto 2025 ospita un universo fatto di oltre 200 fotografie.
E siamo anche qualcosa di più: testimoni di una rivoluzione silenziosa, quella del colore, della geometria, dell’occhio che sa vedere oltre.

Fontana non fotografa ciò che vede, ci ricorda lui stesso.
Fotografa ciò che è

Piscina, 1983 ©Franco Fontana

🎨 Dentro i colori, oltre la forma

Camminiamo in questi spazi immersivi come si sfoglia un album di viaggi impossibili.
Linee, superfici, contrasti netti e orizzonti improbabili si susseguono, e noi ci perdiamo senza perderci mai.

C’è un’architettura invisibile che tiene insieme tutto: l’equilibrio tra cielo e terra, tra pieni e vuoti, tra un blu così saturo da essere quasi liquido e un giallo che sembra sussurrare segreti di grano e luce.

Vediamo Praga in grandangolo, skyline fatto di geometrie.
Attraversiamo paesaggi astratti dove la profondità di campo è ridotta all’essenziale.
E capiamo subito: Fontana non documenta, interpreta.

I paesaggi diventano autoritratti. Le strade, confessioni.
Camminando lungo queste sale, ci chiediamo quanto di noi stiamo lasciando in quelle superfici pure, levigate, essenziali.

🧭 Un viaggio che non finisce mai

Non c’è un vero inizio, né una fine.
I temi ricorrenti – l’urbanità rarefatta, le distese di colore, i nudi accennati come appunti visivi – si rincorrono in un ordine che non è cronologia, ma visione.

Vediamo i vintage anni Sessanta accanto ai collage digitali, le polaroid private accanto ai nudi liquidi e sfumati.
Niente è statico. Tutto continua a muoversi, ad evolvere, come se Fontana ci ricordasse che la fotografia, come la vita, è un eterno esperimento.

Camminiamo sulle autostrade fatte di asfalto grafico.
Nuotiamo nelle piscine dove il corpo femminile diventa paesaggio fluido.
Attraversiamo città dove le ombre disegnano geometrie, da Parigi a Tokyo, in un susseguirsi di suggestioni che sembrano allontanarsi solo per richiamarsi subito dopo.

📸 Tra la strada e il cielo

Ad ogni passo, l’impressione è che Franco Fontana sia riuscito a fare una cosa che pochi fotografi hanno tentato: togliere il rumore al mondo.

Nei suoi scatti l’asfalto non è solo superficie, è narrazione.
Le automobili non sono oggetti, sono tracce.
I muri urbani diventano campi di colore, come se il cemento potesse finalmente respirare.

E poi la luce. Sempre la luce.
Non come decorazione, ma come sostanza, materia, vita.
Una luce che esplode nei paesaggi americani e si raccoglie nelle curve di un corpo, nei dettagli di un vetro, nella linea di un orizzonte che si inventa ad ogni sguardo.

🛤️ Il nostro paesaggio interiore

Quando arriviamo alla fine, sappiamo che in realtà non siamo mai usciti da noi stessi.
Fontana ci ha prestato il suo occhio, ma ci ha chiesto di usarlo per guardare dentro.
Ci ha portato sulla Route 66, a Compostela, sulla Via Appia, solo per farci scoprire che il paesaggio più vero è quello che abbiamo dentro.

E allora capiamo la sua frase, quella che ci accoglie e ci saluta:

“La fotografia non è ciò che vediamo, è ciò che siamo.”

E noi, per un po’, siamo stati colori, linee, ombre, silenzi.
Siamo stati anche, senza saperlo, fotografie.

Mare del Nord, 1976 ©Franco Fontana

FOTO COPERTINA: Phoenix, 1979 ©Franco Fontana