A Roma, a Palazzo Cipolla, Salvador Dalí ha trovato casa fino al 1° febbraio 2026. La mostra “Dalí. Rivoluzione e Tradizione” mette insieme più di sessanta opere tra dipinti e disegni, con documenti fotografici e audiovisivi, per raccontare il suo universo creativo e il dialogo serrato con i grandi maestri del passato – Velázquez, Vermeer, Raffaello – e con il “rivale” contemporaneo per eccellenza, Pablo Picasso.

Noi l’abbiamo attraversata cercando proprio questo: capire come quella tensione fra fedeltà alla tradizione e desiderio di rompere tutto possa parlare anche alla nostra vita di ogni giorno – a come ci vestiamo, cuciniamo, viaggiamo, ci prendiamo cura di noi, arrediamo casa, scegliamo un film o una playlist.

Un Palazzo nel cuore di Roma, un viaggio dentro Dalí

Entriamo in via del Corso come faremmo in qualunque giornata romana: folla, vetrine, rumore di passi. Appena varcata la soglia di Palazzo Cipolla, lo scenario cambia. L’allestimento ci accompagna in un percorso che va dalla giovinezza di Dalí alle ultime opere, seguendo un filo chiaro: da un lato l’ammirazione quasi devota per Velázquez, Vermeer, Raffaello; dall’altro la spinta continua alla sperimentazione, fino al confronto, ambiguo e mai pacificato, con Picasso.

Ogni sala è un capitolo: ci sono i quadri che dialogano con i maestri antichi, le opere che mostrano il Dalí più noto e visionario, i materiali che raccontano la costruzione del suo personaggio pubblico, le tracce del lavoro teorico e dei suoi “segreti magici” per dipingere. L’impressione è quella di assistere non solo a una grande retrospettiva, ma a un racconto sull’identità: chi siamo quando restiamo fedeli a ciò che amiamo e chi diventiamo quando cerchiamo di superarlo.

Dandy surrealista: stile, dettagli, identità

È impossibile non soffermarsi su come Dalí sceglie di apparire. Nei ritratti, nelle fotografie, nelle immagini d’epoca che accompagnano il percorso, emerge una figura che ama la forma impeccabile: giacche strutturate, camicie con colli inamidati, mantelli, cravatte perfettamente annodate.

Su questa base “classica” innesta il colpo di teatro: i famosi baffi appuntiti, lo sguardo obliquo, la posa studiata. È un promemoria di stile molto attuale: la trasgressione funziona davvero quando poggia su fondamenta solide.

Noi lo traduciamo così nel guardaroba quotidiano:

  • un blazer tradizionale con un accessorio volutamente fuori registro (una spilla ironica, una cravatta con micro-disegno surreale, orecchini spaiati);
  • una camicia bianca perfetta abbinata a un rossetto inaspettato o a un eye-liner grafico;
  • un look minimal interrotto da un unico elemento-esagerazione (una borsa dalla forma insolita, scarpe dal design scultoreo).

Viaggiare con Dalí senza uscire da Roma

Dal punto di vista di chi ama i viaggi, questa mostra è un’esplorazione geografica mascherata da percorso museale.

Nelle opere che guardano a Vermeer sentiamo l’eco dei Paesi Bassi: la luce che entra dalle finestre, gli interni raccolti. Con Velázquez arrivano la Spagna di corte, la gravità dei ritratti ufficiali, l’importanza del dettaglio. Con Raffaello, l’Italia dell’armonia, della composizione perfetta, dei volti ideali. E poi, sullo sfondo, l’Europa del Novecento che Dalí condivide – e contende – con Picasso.

Organizzare un weekend romano con la mostra al centro diventa quasi naturale:

  • Una mattina a Palazzo Cipolla, prenotando in anticipo e dedicando al percorso il tempo di un film;
  • all’uscita, una passeggiata verso il Pantheon o Piazza Navona, portando con noi la “lente daliniana”: prospettive inattese, riflessi nelle vetrine, dettagli architettonici che sembrano citazioni;
  • un pranzo che gioca fra Spagna e Roma, tapas e supplì, tortilla e amatriciana;
  • il pomeriggio in un altro museo del centro, per continuare il dialogo fra maestri del passato e sguardo contemporaneo.

In poche ore, ci ritroviamo ad aver “visitato” mezza Europa restando nel raggio di qualche chilometro.

A tavola con Dalí: la tradizione che osa

Dalí amava la cucina ricca, scenografica, barocca. Il suo immaginario è pieno di uova, aragoste, pani scultorei, banchetti teatrali. La mostra non è gastronomica, ma le immagini che ci portiamo a casa hanno inevitabilmente un sapore.

Ci siamo divertiti a trasformare queste suggestioni in un menu domestico post-mostra, alla portata di tutti, che tenga insieme comfort e sorpresa.

  • Antipasto – Un uovo morbido (barzotto o pochée) adagiato su una crema di patate e porri. Intorno, dadini di pane tostato e qualche goccia di olio aromatizzato al rosmarino. Ingredienti semplicissimi, presentati come una piccola scena surrealista.
  • Piatto principale – Una vellutata di zucca o di verdure di stagione servita in fondine bianche. Al centro, una cucchiaiata di yogurt o ricotta, sopra semi tostati e un filo di olio piccante a disegnare linee e spirali. La superficie del piatto diventa una tela.
  • Dolce – Frutta di stagione (pere, mele, agrumi) cotta al forno con miele e spezie, tagliata poi in piccole forme geometriche e servita con una crema leggera allo yogurt o al mascarpone. Tradizione pura, ma impiattata come un collage.

È un modo semplice per portare a tavola la stessa dinamica che vediamo nelle sale: radici solide e un tocco di teatralità giocosa.

Una visita come piccolo rituale di benessere

Nel titolo della mostra, quella coppia rivoluzione/tradizione parla anche di noi: una parte ha bisogno di abitudini, l’altra vorrebbe cambiare tutto. Passeggiare tra i quadri può diventare un modo per allenare l’ascolto interno, oltre che la mente.

Possiamo decidere, per esempio, di vivere la visita come un piccolo rituale di benessere urbano:

  • scegliere in anticipo cinque o sei opere a cui dedicare davvero tempo (quelle che ci incuriosiscono di più o ci mettono a disagio);
  • davanti a ciascuna, fermarci almeno tre minuti, contando dieci respiri profondi e lenti;
  • notare cosa succede al corpo: spalle, mascella, respiro, battito;
  • tenere un mini taccuino in cui annotare una parola, un colore, una sensazione per ogni sala.

Prima di entrare possiamo mettere il telefono in modalità aereo, per non spezzare continuamente la concentrazione. Dopo la visita, concederci una pausa in un bar vicino – una tisana, un caffè, una cioccolata – e qualche minuto per rileggere le nostre note. In questo modo la mostra smette di essere solo qualcosa da “consumare” e diventa una parentesi in cui il tempo, per un attimo, si allunga.

Dal quadro allo schermo: il lato cinematografico

Anche senza un focus specifico sul cinema, Dalí ci appare sempre come un artista che pensa per inquadrature e montaggi. Alcune opere sembrano fotogrammi congelati: ci ritroviamo a chiederci cosa sia successo un attimo prima o cosa accadrà tra dieci secondi.

Visitiamo la mostra come se fosse un film:

  • ogni sala è una scena, con un suo ritmo e una sua luce;
  • i rimandi a Velázquez, Vermeer, Raffaello assomigliano alle citazioni fra registi di generazioni diverse;
  • il rapporto ambivalente con Picasso fa pensare a quei confronti creativi in cui due autori si annusano, si sfidano, si ispirano a vicenda.

L’idea che ci portiamo via è che il confine tra pittura e cinema, oggi, sia molto più sottile di quanto sembri. Non a caso, tante immagini daliniane ci vengono spontaneamente in mente quando guardiamo alcune scene di film visionari, onirici, sospesi tra sogno e realtà.

La colonna sonora del surrealismo

Se proviamo a “ascoltare” la mostra, ci accorgiamo che il percorso ha un suo ritmo interno: momenti più raccolti, quasi cameristici, e improvvisi crescendo di immagini, dettagli, simboli.

Prima di entrare o per accompagnare il dopo-mostra, possiamo creare una piccola playlist personale:

  • per le sale che dialogano con i maestri antichi, musica barocca o da camera, con pochi strumenti e molta aria tra le note;
  • per i passaggi più inquieti e sperimentali, brani jazz o contemporanei che giocano con dissonanze e improvvisazioni;
  • per l’uscita, una traccia che mescoli elettronica e strumenti acustici, proprio come la mostra mescola tecnica e invenzione, passato e futuro.

Non si tratta di trovare la “musica giusta per Dalí”, ma di usare il suono per accordare il nostro passo al ritmo delle opere, senza farci trascinare dalla fretta.

Portare Dalí a casa: interni, oggetti, atmosfere

Palazzo Cipolla è un perfetto esempio di come una cornice classica possa ospitare visioni fuori dagli schemi. Le sale storiche con stucchi e proporzioni eleganti accolgono opere che giocano con paesaggi mentali, deformazioni, sogni.

Possiamo fare qualcosa di molto simile a casa nostra, anche senza stravolgere nulla:

  • mantenere una base di arredo sobrio e funzionale – pareti chiare, mobili essenziali – e introdurre uno o due elementi decisamente surreali: uno specchio dalla forma inconsueta, una lampada che sembra un oggetto di scena, un quadro che gioca con illusioni ottiche;
  • costruire un piccolo angolo “daliniano” su una mensola o un tavolino: un vaso, alcuni libri impilati in orizzontale, un oggetto fuori contesto (una clessidra, una mini scultura, un orologio vintage) disposti come una natura morta che racconta una storia.

In camera da letto possiamo lavorare sulle atmosfere oniriche: palette morbide (sabbia, grigio chiaro, rosa polvere), luci stratificate, un’unica stampa più visionaria al posto della solita testata. In uno studio domestico, invece, possiamo ispirarci al Dalí teorico: scrivania in ordine, strumenti essenziali, una bacheca d’immagini che ci ispira.

Uscire da palazzo cipolla con uno sguardo diverso

Quando torniamo su via del Corso, il traffico è sempre lo stesso, le vetrine sono sempre le stesse, ma lo sguardo si è spostato di mezzo grado.

“Dalí. Rivoluzione e Tradizione” ci lascia la sensazione che ogni ambito della nostra vita – il modo in cui ci vestiamo, cuciniamo, viaggiamo, arrediamo, ci prendiamo cura di noi, scegliamo cosa guardare o ascoltare – possa essere ripensato proprio come lui ha fatto con la pittura: senza rinnegare ciò che amiamo del passato, ma permettendoci un gesto in più, una deviazione, un piccolo atto di surrealismo quotidiano.

In fondo, la vera eredità che ci portiamo a casa è questa: la tradizione può essere la base più solida da cui spiccare il salto. E Roma, con Dalí di casa a Palazzo Cipolla, è il posto perfetto per allenarci a farlo.