Un ventaglio di canzoni. Un tracciato interiore. Un inseguimento da fermo. La descrizione di una gioiosa ossessione, di un desiderio da esaudire a tutti i costi. Quello di potersi confessare con il fantasma di una delle cantanti più straordinarie di tutti i tempi. Una donna che ha riversato nella voce la febbre di una vita difficile, spezzata da alti e bassi, colma di passioni, di allegria, di disperazione, di generosità, di egocentrismo.  Una donna che ha avuto tanto incontri quanto scontri, che è stata ispirata e che ha ispirato. Una donna legata a passioni brevissime e ad amicizie di una vita, come quella con Jean Cocteau che scrisse per lei il monologo Le bel indifferént e che non l’abbandonò mai, sino al punto di morire nello stesso giorno. Di lei disse: “Non ho mai conosciuto una persona meno parsimoniosa con la propria anima. La sperperava, ne gettava l’oro dalle finestre”. Grido d’amore. Edith Piaf non è il racconto di una vita, ma il semplice omaggio a chi la vita l’ha trasfigurata riuscendo forse a essere veramente se stessa solo su un palcoscenico. È quello che accade a tutti i grandi artisti, che lasciano la verità di se stessi in eredità al futuro. A quel punto la biografia forse non ha importanza, non esiste più, non serve. È la loro arte che rimane, fluttua, rivive a ogni incontro, resta nella memoria, risplende nel mito che genera altre passioni, altre tensioni, altre verità. È a tutti gli artisti che questo spettacolo vuole essere dedicato. Una scena notturna, un luogo quieto, calmo, apparentemente deserto. Un personaggio vi entra di soppiatto. Ha un mazzo di fiori in mano. Si dirige verso un punto che non conosce, ma che sa dov’è. È un improbabile viaggiatore, un passante, forse un vagabondo. Racconta storie, racconta di destini incrociati e ascolti lontani, rivive antiche passioni, magari non sue.  Ad accompagnarlo in questi soliloqui  vi è una piccola orchestrina di strada: una fisarmonica, un violino, una chitarra. Ad accompagnarlo nel suo viaggio, alcune delle canzoni che resero celebre Edith Gassion, meglio conosciuta come Edith Piaf. Canzoni che acquistano una luce diversa, diafana, magicamente spettrale, attraverso uno scarno vestito strumentale e la voce di questo improbabile ammiratore fuori tempo massimo.  Il canto si dispiega nella lingua originale, il francese. Non si tratta di un esercizio di stile o di civettuolo snobismo: il fatto è che le canzoni vivono di parole e le parole, nella musica, vivono di suoni, e i suoni non possono essere tradotti. Certe rime, certe allitterazioni, certi incontri fonici non possono che essere resi solo evitando di tradurre il testo in un’altra lingua. Lasciare queste canzoni in originale significa paradossalmente mantenere il sostrato veramente popolare in cui e per cui furono pensate. Che poi sia una voce maschile a cantarle, non crediamo importi molto. Da quando in qua un vero mito e la sua produzione mantengono il sesso dell’artista che quel mito ha incarnato? Il mito è di tutti, e questo è bello, tra le altre cose. Roma Teatro Due
da mercoledì 23 gennaio
a domenica 3 febbaio