Ha separato palcoscenico e platea con una vetrata ed isolato gli spettatori, aldilà di questa, ad ascoltare in cuffia un’imperdibile Elettra olofonica, vibrante nel suo suono pieno, diventato visione, drammaturgia ed emozione. Ora il regista Andrea De Rosa, ispirandosi alla cronaca, conduce gli spettatori in una nuova dimensione sensoriale, in un’altra straniante avventura percettiva, che apre uno squarcio profondo sui problemi etici e filosofici che la cura dei pazienti può avere sugli stessi. In scena ad interpretare l’emblematica vicenda di Molly Sweeney sarà un trio d’interpreti d’eccezione, Umberto Orsini, Valentina Sperlì e Leonardo Capuano.  La storia di Molly Sweeney è stata rielaborata drammaturgicamente dall’autore irlandese Brian Friel, a partire da un fatto realmente accaduto e raccontato dal neurologo Oliver Sacks nel saggio Vedere e non vedere: Molly è una donna di quarant’anni, cieca ma completamente autonoma, che lavora come fisioterapista. Il tatto è la sua strada per entrare in contatto col mondo e per riconoscerlo. La donna, convinta a sottoporsi ad una delicata operazione chirurgica, riacquista in parte la vista, ma l’esito positivo dell’intervento provoca in lei un grande un trauma. Molly si trova infatti a dover ri-conoscere il mondo, a doversi reinventare un orientamento, a re-imparare a vedere, con l’inconscia intuizione d’avviarsi ad un tragico fallimento.  E se, come già era accaduto per Elettra, il regista e gli attori rimettono in discussione gli schemi normali della percezione, tanto più cambiano i parametri metaforici della visione della vita e delle sue emozioni. Una drammaturgia dello spaesamento – per dirla con le parole di Umberto Orsini – che ancora una volta rimescola le carte del fare teatro interpretando il medico e quindi la precisione scientifica di colui che deve operare il miracolo, non curante di una diversa sensibilità.  Difficile ed affascinante è il ruolo di Valentina Sperlì – prima cieca, avvolta lei si nell’oscurità ma depositaria di una sapienza sensoriale,  squarciata improvvisamente da un’altra dimensione di vedente, fuori dall’handicap ma calata in una nuova ed “innaturale” realtà. A supportare la donna, il marito – Leonardo Capuano – calato a sua volta in un altro tipo di cecità che gli fa rifiutare lo svantaggio fisico a favore di una mediocrità priva di illusioni. Tre interpretazioni complementari e di grande impatto emotivo per guidare il pubblico dentro e fuori la messa in scena, affidandosi molto alla forza medianica dei cinque sensi, che diventano parte integrante dello spettacolo.  A completare ancora il quadro, una strumentazione tecnica – microfoni e luminescenze, led e torce, foriere di atmosfere e riflessioni. E torna dunque l’interrogativo di partenza col quale William Molyneux si confrontò coll’amico John Locke: «Immaginiamo un uomo nato cieco e ormai adulto, a cui sia stato insegnato a distinguere un cubo da una sfera mediante il tatto e al quale venga ora data la vista; sarebbe egli in grado, prima di toccarli, di distinguerli e dire quale sia la sfera e quale il cubo, servendosi solo della vista?».