C’era una volta Peter Pan, l’eterno fanciullo che viveva felice volando nei giardini di Kensington. Una volta, appunto. Perché oggi, Sir James Mattew Barrie, avrebbe qualcosa da puntualizzare o magari sorriderebbe con affettuosa indulgenza, vedendo che la popolare figura creata dalla sua fantasia, ha dato vita a tanti aspiranti “forever young” tra coloro che non sono più giovani a pieno titolo.Sentiamo continuamente parlare della Sindrome di Peter Pan, una malattia comune del nostro tempo, che denota il rifiuto (ma anche l’incapacità) da parte di molti adulti, di farsi carico delle cosiddette “responsabilità” e il rifugio nei comportamenti tipici della fanciullezza attraverso tutti i suoi codici, dal linguaggio, all’abbigliamento, alle consuetudini.In ambito scientifico, si chiama neotenia psicologica, ovvero il mantenimento, nello stadio adulto, delle caratteristiche infantili perchè, spesso, ad una crescita fisiologica precoce si accompagna la paura di crescere, da cui poi nasce un conflitto che può portare ad atteggiamenti regressivi.Ma, considerando che nella società attuale, perlomeno quella che esce dal processo di industrializzazione, si è prodotta una maggiore indefinitezza e il cammino delle nuove generazioni alla ricerca di sé risulta più lento e articolato, la sindrome si spoglia della sua veste scientifica  e diventa una sorta di limbo tra realtà e voglia di evasione. Succede che si diventa adulti in tempi più dilatati e gli immaturi stagionati, trovano una valida giustificazione del loro comportamento, nell’entrata in scena di professioni e relazioni sociali molto più dinamiche rispetto al passato e che rendono più instabile la vita.E se il rifiuto di operare nell’età adulta fatta di incertezze, dubbi, prezzi da pagare e cattivi pronostici sull’economia futura, ritarda sensibilmente l’arrivo dell’ “età della ragione”, è  normale constatare che i teneri fanciulli non abbiano più l’esclusiva sull’età della spensieratezza.