Il primo, quando l’uomo è piccolo e si incaponisce a tenere questo bastardino trovato per strada per affermare una sua autonomia nei confronti del mondo; il secondo, quando l’uomo è grande e si trova ad accudire il bastandone di un ragazzo che ha investito con la macchina e, quando il ragazzo muore, finisce per affezionarsi a quel cane dall’improbabile pelo giallo, finisce per parlarci, anche se la moglie non vuole una bestia per casa. Ma l’uomo è gentile ed ha promesso al ragazzo che si occuperà del cane. Così l’animale diventa un motivo di litigi, di allontanamento, fino a quando, per non perdere la donna che ha sposato, l’uomo decide di abbandonarlo. Un gesto tardo e ormai inutile. La donna non c’è più, forse ha un altro, un istruttore di palestra. Allora l’uomo esce e va in cerca del suo amico fedele, e a casa non torna più. Vive sotto i ponti, nella metropolitana, mangia dalle suore azzurrone che sono straniere e allegre, ogni tanto fa toeletta al diurno e va a mangiare qualche gelato da Mc Donald; passa anche sotto le finestre di casa per sbirciare la donna amata. Ma soprattutto guarda: l’azzurro del cielo sopra di lui e i volti della gente comune, le facce dei cormorani, così li chiama questi uomini normali che incrocia impegnati nel vortice spesso insensato della quotidianità, per via di quel loro volo basso, rasente la linea dell’ orizzonte. E allora si conforta, scaccia la nostalgia e con uno scatto di orgoglio per la propria condizione di uomo libero dà un calcio anche alla malinconia. “Questo Zorro non è un eroe, non ha la maschera sul viso, né il mantello nero. E’ uno senza fissa dimora, un homeless, un randagio. Il suo è il racconto di un erranza, di gambe, ma soprattutto di zucca e di cuore. Perché lui, un po’ spostato lo è, avendo trasferito la sua persona e tutto il suo corredo di pensieri buffi e tristi fuori dai luoghi di vita lecita. Il suo vagabondaggio attraverso i fetidi santuari urbani di mense, vagoni abbandonati, sobborghi, parchi pubblici, segue una traccia esclusivamente emozionale. La poesia c’è quando resiste:ormai anche la vita di strada è balorda, barbara come questa stagione umana, densa di sperpero, di sgomento. Zorro non somiglia a nessuno, viaggia per conto proprio. Ha dalla sua tempo e occhi. Guarda in alto il volo degli uccelli migratori, e in basso i volti di chi incontra, di chi passa. Li accompagna con un pensiero, con un desiderio o con un calcio di ribrezzo. Il suo filosofare è allegro, arguto, senza “mordacchia”, indefesso come il suo deambulare. Ma poi, ecco un colore, un profumo, un silenzio:l’agguato dei ricordi. Ed ecco affiorare il racconto di una vita abbandonata, fraintesa, lasciata in sospeso, a causa di una donna, di un cane, di uno sbaglio… Ed ecco un gemito di solitudine, una lacrima, una parola brutta, un grido. Languori da inadatto. E per fortuna, e per coraggio, che c’è il bere, l’inchiostro della notte e le sue stelle, e il fiato di un incontro, e un bacio che non si sperava” . Massimiliano Valenzano ZORRO di Margaret Mazzantini prima martedì 25 ottobre 2005 (repliche fino al 30 ottobre) teatro Sala Umberto (via della Mercede 50)