In scena al Teatro Palazzo Santa Chiara di Roma, dal 9 al 11 marzo, con Elio Pandolfi, voce recitante e Marco Scolastra, pianoforte, la  filastrocca di David Lear. L’autore, Luciano Cicioni, di mestiere fa l’avvocato. E di certo Cicioni avrà la maturità classica.Di certo terrà, in casa, scaffali di libri letti; non soltanto, nello studio legale, quelle severe, inquietanti teorie di dorsi zeppi di leggi, teorie, sentenze. Quanti bei nomi di “esercenti” l’attività legale fan parte della letteratura italiana. Cicioni, è bene dirlo, sta vincendo la sua sfida con le parole e la versificazione, e se è vero che barthesianamente “testo vuol dire tessuto”, il suo telaio lavora trame di grande abilità, che rivelano capacità mimetiche calibrate, non sul filo del travestimento satirico o burlesco, ma sul registro di una transcodificazione ironica e sofisticata.A Cicioni non interessa tanto, come nel classico crudele Paolo Vita-Finzi o nel trasgressivo Michele Serra, misurarsi – oltre che sul contesto stilistico – nei contenuti per così dire ideologici, quanto entrare nella pelle linguistica dell’altro. Non lo stimola troppo la versione caricaturale. Ama di più la creazione di un sosia, quella che Bachtin definisce “l’affermazione di un mondo alla rovescia”, che poi è la cifra della parodia. Dunque ecco nascere dalla costola di Luigi Sailer trentuno Vispe Terese, in carne ed ossa poetiche, credibili. E così la celeberrima filastrocca, appena un rigo sopra l’insensatezza dei limericks nonsente rivive su latitudini impensate e grazie a impervie, e riuscite, sperimentazioni. E’ proprio vero che l’imitazione è la miglior forma di lusinga e di stima.                                                                                                               Antonio Carlo Ponti