Presentata a Roma questa mattina la conferenza stampa convocata da l’Agis Lazio affinchè la “Cultura” venga posta al centro delle nuove strategie economico politiche nazionale e locali.Oltre 1800 imprese che danno lavoro, direttamente o indirettamente, ad almeno 27 mila persone, coinvolgendo quasi 6 milioni di spettatori per un volume di affari di oltre 140 milioni di euro. Questi i numeri. Ma in Italia (a differenza del resto del resto del mondo dove si inizia a guardare alle industrie culturali e creative come a uno dei settori che potranno esercitare nei prossimi anni una spinta trainante sul sistema economico) la cultura è sempre e soltanto un settore marginale, da tagliare, privo di qualunque interesse strategico. L’Italia nel 2010 con un investimento pubblico in cultura pari a 1,8 miliardi di euro ha ottenuto un contributo al PIL pari 39,7 miliardi evidenziando, quindi, un “moltiplicatore dell’investimento” pari a 21,3, il secondo migliore nell’ambito dell’Unione Europea. Se l’Italia investisse una somma pari alla media di quanto messo a disposizione da parte di Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna (6,65 miliardi di euro) il contributo al PIL, a parità di “moltiplicatore dell’investimento”, schizzerebbe a 140 miliardi di euro. Altro che manovra economica. Quindi, ignorare la Cultura significa trascurare dati fondamentali del nostro bilancio e soprattutto rendere un pessimo servizio al nostro Paese. Basti pensare che nel 2010 i posti di lavoro direttamente collegabili al settore cultura erano 550.000, di cui 158.326 nello spettacolo dal vivo con un volume di affari complessivo di 1.241.781.191,00 €. Ma nonostante questi dati la spesa centrale dello Stato per la cultura è 3 volte inferiore a quella dei principali paesi europei e risulta in costante flessione sia in valore assoluto, sia in quota percentuale sulla spesa complessiva. Solo una politica miope può continuare a considerare la Cultura un lusso e non una importante occasione di rilancio, di crescita e sviluppo della nostra economia. Ma per farlo occorrono politici che comprendano i nuovi scenari e le nuove opportunità, ma i nostri politici si sono formati in un mondo molto diverso, centrato appunto sul primato strategico di altri settori al quale continuano a fare riferimento. Sembra che l’arena della competitività economica sia quella di venti anni fa. Del resto, non è la nostra classe dirigente quella di venti anni fa?