L’avevano avvisata, ma lei aveva pensato fosse una battuta. “C’è un fico in salotto.” Marie, archivista belga, precisa fino al midollo, era arrivata a Castellammare per uno scambio casa di due settimane. “Per rallentare,” aveva scritto nella bio del sito. Ma lei voleva controllare il rallentamento. Deciderne tempi, modalità, orari. Aveva immaginato un appartamento con vista, magari un po’ disordinato, ma gestibile. Non un albero. Non radici sul pavimento.

Il fico cresceva in un angolo del soggiorno, tra un vecchio divano e una televisione a tubo catodico. Aveva forato le piastrelle, spinto contro il soffitto, scavalcato le regole. Nessuno l’aveva tagliato. Anzi, sembrava che la casa gli ruotasse intorno. Tazze poggiate sulle radici, libri infilati tra i rami bassi, un cuscino legato a una sedia per guardarlo meglio. Come si guarda una creatura sacra.

Il primo giorno, Marie cercò di ignorarlo. Il secondo lo fotografò. Il terzo cercò su Google “come fermare un albero in una stanza”. Nulla di utile. La casa sembrava volerle parlare solo tramite il fico. I vicini entravano senza bussare. Una vecchia signora portò una ciambella e chiese se poteva “accarezzare il nonno”. Marie non chiese spiegazioni.

Alla fine della prima settimana smise di usare il tavolo e iniziò a lavorare seduta per terra, appoggiata al tronco. Sentiva il legno vivo sotto la schiena. Ogni tanto una foglia cadeva. Lei le raccoglieva e le usava come segnalibro. Iniziò a scrivere lettere a sua sorella che non spediva, tutte iniziate con: “Qui si cresce anche senza permesso.”

Il giorno prima di partire, trovò un biglietto nella buca della posta, scritto a mano:
“Lascialo aperto. Così respira meglio.”
Non c’era firma. Solo un disegno: una foglia con un punto interrogativo.

Marie lasciò la finestra del salotto socchiusa. E sotto al fico, poggiò la sua lente d’ingrandimento.
Perché in fondo, aveva visto tutto. E per una volta, non voleva archiviare niente.