La casa era luminosa in un modo che disturbava. Troppa luce, troppo diretta, quasi un interrogatorio. Chiara era abituata al verde del Pigneto, all’ombra dei balconi stretti e all’eco ovattato delle finestre chiuse. Biologa urbana, in pausa “non pianificata” dalla ricerca, aveva deciso di provare lo scambio casa come ultima risorsa contro la tristezza che si muove lentamente, come il traffico in tangenziale. Siracusa sembrava lontana abbastanza. Il profilo della casa sul sito era vago, ma prometteva “vista aperta, terrazzo abitabile, luce da tutte le parti”. Nessuna foto dell’interno. Un invito alla fiducia, o alla follia.

Arrivò a metà pomeriggio. Il portone in pietra era scrostato in modo affascinante. Dentro, scale strette, odore di panni umidi, e poi l’appartamento. Nudo, ma non vuoto. Tende leggere, ventilatore a soffitto, letto basso, libri in disordine misurato. Ma era il terrazzo a dominare tutto. Rosso. Piastrelle cotto acceso, pareti intonacate, persiane verdi spalancate. E sedie: tante. Più di quante servissero a una persona sola. Troppe.

La prima sera cenò fuori, sola, con la pasta che sapeva di pomodoro vero. Alle nove in punto, sentì la voce.
“Chiara, hai fame?”
Si voltò. La vicina. Una signora anziana, capelli bianchi, ventaglio lento. “Hai fame?” ripeté, come se fosse una formula.
“No, ho già cenato.”
“Ma qui si mangia due volte.”
Chiara rise. Ma la donna era seria.

La seconda sera, la stessa scena. Ma stavolta, un’altra voce. Un uomo giovane. Dall’altra terrazza. “Ti aspettiamo. Non serve portare niente. Solo ascoltare.”
Alle nove e mezza, iniziarono. Musica. Non alta, ma presente. Una chitarra, un bicchiere che batte contro un piatto, risate lente. Non vide nulla, solo ombre e riflessi. Nessun invito diretto, ma ogni sera, lo stesso rituale. E ogni sera, una sedia libera più vicina al bordo della terrazza. Sulla sua.

Alla quarta notte, si sedette su quella sedia. Non disse nulla. Nessuno parlò. Ma la musica continuò. Una mano le porse una fetta di pane da oltre il muro. Lei la prese.

Scrisse nel diario: “Non serve conoscere i nomi. Basta accettare il ritmo.”

Quando partì, lasciò sul tavolo una piccola conchiglia. E su un foglietto piegato:
“Grazie per la luce. E per la seconda cena.”