Erano giornate calde, ma la serata fra vino e cous cous scorreva bene; non freschissima, ma bene. Non si era proprio in orario: il pubblico aveva chiesto alla band che era sul palco di suonare ancora, e il tempo per l’esibizione di Rita Botto stringeva: avrebbe cantato subito dopo, ma entro mezzanotte bisognava smettere – la legge viene un paio di pagine prima della musica. Salì, cantò. Ma la mezzanotte si mise a correre: la legge se ne accorse e si mise a dormire: il sindaco, in prima fila, diede disposizioni per suonare ancora, e ancora. La mezzanotte se ne andò e la serata divenne più fresca. Finito il vino, finito il cous cous, Rita continuava ancora perché nessuno voleva che smettesse. Passarono un po’ di mesi, e a un paio di metri da noi la trovammo brindare a qualcosa. Ci vide, salutò. Aspettammo poco: ci venne incontro e ci accomodammo vicino al palco: approfittammo della sua voce, prima che si esibisse. Non conoscevamo moltissime cose di lei: sapevamo di Bologna, dell’insegnamento, di Rosa Balistreri, dei vasi dentro cui canta. E soprattutto dell’ottimo piazzamento al premio Tenco come miglior interprete, insieme a Nanni Svampa e dopo Morgan, i Modena City Ramblers e Arigliano. Avendola vista esibirsi, avendo ascoltato Stranizza d’amuri, però, non potevamo non chiedere anzitutto qualcosa sull’abilità negli scioglilingua. Ucuoppucupupocupipicapi, disse. Come?, chiedemmo. U-cuoppu-cupu-pocu-pipi-capi, rispose. E disse che questo non le viene proprio benissimo. Cerco di piegare i suoni e suonarli come tamburi. Gli scioglilingua sono prove di abilità, fatte per mettere in difficoltà: così poi non dicevi esattamente ‘pazzo cane’…. E, facendo notare quanto si diverta coi suoni, specificò: Vengo anzitutto dal jazz, dove si lavora parecchio sul timbro della voce. Credo che il mio esercizio precedente mi abbia agevolato molto nel sapere trattare i suoni. Rita Botto è elegante come il jazz, ricorda fotogrammi di pellicole sulla Sicilia di fine ’800-inizi ’900, film sul passato luccicante dell’isola, fatti bene, col dialetto usato come col pennello e le frasi che sembrano cerchi colorati di Klimt. Noi siciliani siamo particolarmente ricchi grazie alle eredità culturali che ci hanno lasciato. Siamo su un’isola, e secondo me la geografia si rispecchia nella persona; magari c’è qualcosa di meno rispetto a fuori, certe mode arrivano forse dopo, ma c’è un magnifico vulcano: perciò molto fermento…. Ha casa a Bologna, ha fatto molte ricerche lì sui testi siciliani: Volevo sì fare un cd in dialetto, ma non essere considerata la cantante che fa le canzoni vecchie per forza. Ho voluto affacciarmi su tutto il panorama: così i brani vanno dalle poesie elaborate, che non avevano musica, a testi che appartengono più ai giorni nostri. Perché penso sempre alla gente, al pubblico, cosa possa piacere.  Non chiedemmo di Stranizza d’amuri: la sua è la quarta versione del brano di Battiato, forse la più bella. Ha testo e musica meravigliosi. L’ho inserita fra le altre proprio per dare un’idea di Sicilia che fosse antica e moderna. Tutto questo fuori è apprezzato: ricordo l’esibizione al festival di Genova… Non me l’aspettavo proprio! Il primo applauso è durato tantissimo…. Ci parlò poi dell’insegnamento a Ferrara, e della storia dei vasi: Avevo letto un libro per insegnare canto e rafforzai la convinzione che anzitutto cantare è una sensazione interna, per cui bisognava incamerarla. Dovevo fare capire cos’è la cassa di risonanza: non la vedi, e ho ritenuto che avere un recipiente fosse la cosa migliore. Accogliere il suono per premiarlo, enfatizzarlo. Ecco: il vaso era la forma più facile! Grazie a quest’esperienza mi sono resa conto che in ogni vaso emerge una nota più di altre, acuta o grave: ho deciso di usarli nei concerti. Non ha studiato, ci disse, e chiedemmo com’è arrivata a fare tutto ciò. Raccontò dell’incontro con Rosa Balistreri: Stava registrando, e io ero lì. Dopo una presentazione veloce mi chiese: ‘Visto che non fai niente me lo compri un pacchetto di sigarette?’ Non le parlai più, ma rimasi incantata dalla sua voce (e perplessa per le sigarette…). Mi dissi che dovevo portare avanti quello che avevo sentito, perché la voce me lo permetteva. Ho voluto recuperare quello che lei era.Continuammo a chiedere curiosità, ma sempre più piccole, fino a quando la cassetta del registratore terminò i giri. Allora salutammo, e andando via notammo che accese una sigaretta: Non dovrebbe, la ammonimmo, e lei, sorridendo: Emulo Rosa.