L’ambiziosa rassegna intergenerazionale che occuperà le sale del Palazzo delle Esposizioni proporrà al pubblico le opere di venticinque artisti newyorkesi, tra emergenti e affermati, ciascuno dei quali sarà presentato in modo approfondito anche grazie alla presenza di lavori inediti, qui esposti per la prima volta. Il percorso espositivo suggerirà i diversi modi in cui è possibile per gli artisti re-immaginare il rapporto tra la loro comunità e la città, focalizzando l’attenzione sulle eterogenee reti di potere che ne condizionano la vita. Tramite la pittura, la scultura, la fotografia, i video e le installazioni, gli artisti di “Empire State” esaminano il ruolo di New York nel contesto globale, in un momento in cui la vita urbana è ovunque oggetto di una ridefinizione sempre più veloce. Concepita dal curatore britannico Sir Norman Rosenthal e da Alex Gartenfeld, curatore indipendente, scrittore ed editor residente a New York, nominato quest’anno curatore presso il Museum of Contemporary Art (MoCA) di Miami, “Empire State” rimarrà aperta al pubblico fino al 21 luglio 2013. “Manhattan è un accumulo di possibili disastri che non avvengono mai”, ha scritto il celebre architetto e teorico Rem Koolhaas. Riguardo a New York, la leggenda più diffusa di un possibile disastro è quella della sua eclisse. Eppure, nell’era della globalizzazione, mentre gli esperti ne annunciano regolarmente il declino, la Grande Mela rimane una forza egemone delle arti visive, in costante dialogo e interazione con la più eterogenea concentrazione di artisti, musei, organizzazioni, gallerie e spazi pubblici. Dall’interno di questa struttura sociale e creativa, gli artisti di “Empire State” aprono spazi di potere e portano alla luce alcuni dei canali attraverso i quali la marea di comunicazione, immaginazione e persuasione fluisce all’interno della loro comunità per poi defluire nel mondo esterno. Gli artisti di “Empire State” hanno dimestichezza con la critica istituzionale e gli studi sui media e l’economia, adottano tecniche ibride e interdisciplinari e utilizzano la tecnologia e l’astrazione per offrire nuovi modelli espressivi e interpretativi. I padiglioni a specchio di Dan Graham, ad esempio, gettano un ponte tra arte minimalista e architettura per riflettere e moltiplicare la forma umana. Nei tredici nuovi dipinti della serie “Antiquity”, Jeff Koons utilizza la tecnica con incredibile maestria per manifestare il proprio interesse nei confronti del classicismo e della mitologia greca e romana. Le nuove fotografie di Michele Abeles includono le sue vedute di installazioni, in un costante processo di revisione e adeguamento al contesto della propria autobiografia. Per una nuova e singolare opera su commissione, Keith Edmier reinventa il monumentale baldacchino barocco della basilica di San Pietro seguendo il linguaggio vernacolare dell’antica Pennsylvania Station, pietra miliare della mitologia newyorkese. Progettata da McKim, Mead & White e realizzata nel 1910, all’apice della rivoluzione industriale americana, la “Penn Station” era uno straordinario capolavoro di architettura neoclassica d’impronta romana che attestava il ruolo di New York quale capitale culturale e commerciale del Nuovo Mondo. Fu ignominiosamente demolita nel 1963, al culmine della smania newyorkese per la “modernità”. Sostituita da una costruzione anonima e scomposta che ha l’effetto di un pugno in un occhio, la Penn Station sopravvive nell’immaginario collettivo come la testimonianza perduta di un impero passato e futuro. Forse però l’aspetto più importante di “Empire State” sta nel far emergere una genealogia di artisti. Dovendo confrontarsi con un mondo dell’arte che assume sempre più una dimensione imprenditoriale e si espande a livello globale come una novella Bisanzio, gli artisti stanno attivando una serie di reti in perenne movimento: relazioni, collaborazioni e scambi che vanno al di là delle barriere imposte dalla generazione, dal genere, dall’ottica o dalla tecnica individuale. Così, R. H. Quaytman propone una nuova selezione dei suoi ritratti di artisti newyorkesi, espressione visiva dell’atto del lavorare in rete e dell’invisibile disegno tracciato dal potere e dallo scambio. La mostra presenta inoltre – per la prima volta in un contesto internazionale – l’opera di Tabor Robak, la cui arte circola principalmente in rete e solleva domande fondamentali sul nostro modo di definire la comunità internazionale dell’arte e sui suoi privilegi. Gli artisti di New York non sono nuovi alla manipolazione dell’autorialità attraverso i collettivi, e un numero significativo di quelli presenti in “Empire State” sono stati coinvolti in gruppi del genere. Tra questi ultimi, Orchard, Reena Spaulings, 179 Canal e Art Club 2000.