Certo non inganni il fatto che siano forme in riposo: uccelli che pigramente rinunciano a dispiegare le loro ali, dirigibili che fluttuano per forza di inerzia non giungendo mai a destinazione, centrini in cui i concetti di transitorio e di immortale portano con sé una nostalgia universale.
Soggetti che raggiungono pur tuttavia una quota, com’è lecito aspettarsi dall’arte che funge da barometro e qui anche da baricentro. Nelle opere di Beatrice Pasquali, Alberto Zamboni e Elisabetta Novello, le forme si cristallizzano e vengono sospese, fissate in uno spazio di calma assoluta, dove la contemplazione si fa più assorta e intima.  L’allegoria del viaggio è quindi un vagheggiamento: meditare la realtà, mediare la visione. La minuzia del particolare con cui Pasquali dipinge degli uccelli (sul recto e sul verso di alcuni vetri bombati che lo spettatore è invitato a ruotare) ha l’ esattezza dei manuali d’ornitologia; tanto i soggetti quanto la tecnica sono sottoposti alla disamina di un’ipotetica lente di laboratorio, campo neutro, di spasmodica attenzione.
Pasquali è affascinata dall’immensità dello scibile umano, attraverso la comprensione vuole raggiungere l’evidenza sensibile delle cose, caparbietà che Bruno Corà aveva fatto risalire alle Fiandre, ad un’ attitudine realista, al piacere della descrizione, alla resa meticolosa, che assurgono a paradigmi. Atteggiamento del tipo linneano, improntato all’analisi e alla sistematica, come dimostrato dalla varietà delle specie e dalla loro livrea. Rispetto alla scienza Pasquali ammette però la speciosità dell’arte, con la conseguente possibilità di essere artista e al contempo collezionista, capace cioè di creare per sé un personalissimo gabinetto di curiosità e preziosità.
Lo sguardo che investe gli scorci, ora bucolici, ora urbani, di Zamboni è solenne ma labile, in essi assistiamo a un continuo sfumare del colore e delle figure, a una perdita focale che si perde nelle maglie del vissuto e del sogno.
Attimi di un ultimo, malinconico, romanticismo in cui ricorre il tema del viaggio, reso palese dalle sagome degli zeppelin o dei cani randagi (anch’essi colti in una quieta immobilità; l’azione risulta statica ma perfettamente compiuta). Il paesaggio e i soggetti sono austeri, come nella migliore tradizione del Novecento Italiano. C’è una forza e un vigore dato dalla sintesi, i piani sono ridotti al minimo, i volumi robusti, la risolutezza formale è concreta e severa, votata a una disciplina interiore che rende ogni elemento maestoso e solenne. La solidità arcaicizzante resta comunque vaporizzata dalla pennellata, dal colore vibrante in cui perdura un senso di mistero (quasi a voler riprendere il discorso laddove sembrava concluso).
Rispetto ai rapporti tonali di Zamboni, Novello giunge alla monochrome malerei. Pittura che si dà per negazione, senza pigmento, senza tela, con la figurazione che si dissolve diventando semi-astratta: dettaglio domestico, vecchio centrino in pizzo che si impolvera, che diventa esso stesso pulviscolo. Delicato ordito, reliquia del presente che viene preservata entro superfici in plexiglas, accettando la fatidica consegna al silenzio. Per Novello il centrino «è l’oggetto che richiede pazienza, che rallenta il tempo, che esige precisione e che nella sua realizzazione crea un rapporto intimo e segreto con se stessi».
Introspettivo e selettivo, il décor si propone come imperituro, in realtà discetta su una nuova tipologia di vanitas, “cupa vampa” – non per nulla la cenere è desunta dalla combustione di sostanze organiche – per i fasti della vita moderna. Sono questi itinerari differenti, percorsi che nel loro incedere potrebbero permetterci di accostare Pasquali al rigore di un doganiere, Zamboni ad un picaro o a un pellegrino visionario, Novello a uno speleologo della memoria, altresì a un archeologo del secolo appena trascorso. Alla maniera di un aquilone, il loro è uno slancio che non vuole recidere il filo che li tiene ancorati al mondo cui appartengono: cordone ombelicale, sottile raccordo, parvenza di narrazione. Perché nessun cammino sembra più irreversibile, è anzi nell’eterno ritorno che il viaggio acquista valore. Allure, forse flebile, sicuramente suadente.Alberto Zanchetta Suadente e flebile allure
23 giugno – 20 luglio 2007
martedi – domenica ore 17,00 – 24,00
Galleria Dellapina ArtecontemporaneaPiazza Duomo 11 Pietrasanta
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