Appena varchiamo il portone di Palazzo Bonaparte, ci sembra di entrare in un’altra epoca: corridoi barocchi, scalinate importanti, e poi all’improvviso il mondo morbido e sinuoso dell’Art Nouveau.
Con “Alphonse Mucha. Un trionfo di bellezza e seduzione”, Roma si regala una delle mostre più attese della stagione, in programma fino all’8 marzo 2026.
È una retrospettiva ampia, più di 150 opere, che permette davvero di attraversare l’universo del maestro ceco: dai manifesti per il teatro e la pubblicità alle grandi composizioni allegoriche, fino ai progetti più ambiziosi e meno noti legati all’identità slava.
Un tempio dell’Art Nouveau nel cuore di Roma
La prima impressione è scenografica: Palazzo Bonaparte si trasforma in un vero tempio dell’Art Nouveau, con un allestimento che gioca su luci soffuse e colori caldi per accompagnarci dentro la Belle Époque.
La mostra è prodotta da Arthemisia, in collaborazione con la Mucha Foundation e i Musei Reali di Torino, e segue un percorso che non è solo cronologico, ma anche tematico: la donna, la pubblicità, il teatro, la spiritualità, la dimensione politica e identitaria.
Ci piace il ritmo delle sale: non c’è l’effetto “muro di manifesti” che a volte stanca, ma una sequenza ragionata che alterna pezzi iconici, materiali preparatori, oggetti d’epoca e confronti con altri artisti.
L’invenzione della donna Mucha
Cuore pulsante del percorso è lei: la donna secondo Mucha.
Capelli che si trasformano in onde, fiori che diventano corone, vesti che sembrano fumo o acqua. La figura femminile è ovunque, e non è mai semplice decorazione: è icona di grazia, forza, modernità.
I grandi manifesti per Sarah Bernhardt, le pubblicità per sigarette, profumi, biscotti o champagne – da JOB a Biscuits Lefèvre-Utile, passando per Moët & Chandon – mostrano un artista che capisce prima di molti la potenza dell’immagine come linguaggio universale.
Girando tra le sale, ci ritroviamo più volte con lo smartphone in mano, pronti a fotografare ogni dettaglio: i gioielli stilizzati, i grafismi dei caratteri tipografici, i piccoli simboli nascosti nelle cornici. È una mostra che, inevitabilmente, parla anche al nostro immaginario visivo contemporaneo, fatto di poster, copertine e feed social.
Manifesti, pannelli decorativi e l’epopea slava
Se Mucha è entrato nella storia per i manifesti, la mostra ci ricorda che il suo lavoro non si esaurisce lì.
Vediamo pannelli decorativi pensati per entrare nelle case borghesi, calendari illustrati, locandine teatrali, litografie dedicate ai segni zodiacali e alle quattro stagioni, fino alle serie più rare come “The Stars” o le allegorie delle Pietre Preziose, dove la decorazione si fa quasi musica visiva.
Molto interessante la parte dedicata all’Epopea Slava, il grande ciclo di opere con cui Mucha prova a dare forma all’identità del suo popolo. In mostra non vediamo i giganteschi dipinti originali, ma studi, bozzetti e materiali che raccontano l’ambizione del progetto: la stessa mano che disegna donne seducenti per la réclame si mette al servizio di una narrazione storica e politica.
È un contrappunto che arricchisce la lettura dell’artista, e ci ricorda quanto sia riduttivo considerarlo solo “quello dei poster belli”.
Il dialogo con Botticelli, Boldini e gli altri
Uno degli elementi più riusciti della mostra è il dialogo tra Mucha e altri maestri della bellezza femminile.
Ospite d’onore è la Venere di Botticelli dalla Galleria Sabauda dei Musei Reali di Torino: un’icona assoluta che, posta vicino alle donne di Mucha, crea un ponte immediato tra Rinascimento e Belle Époque.
Accanto, le opere di Giovanni Boldini, Cesare Saccaggi, dipinti ottocenteschi e sculture antiche, mostrano come l’idea di seduzione femminile cambi nei secoli, pur rimanendo legata a pochi elementi costanti: lo sguardo, il gesto delle mani, il movimento dei tessuti.
Ci piace questa scelta curatoriale: ci aiuta a capire che Mucha non nasce dal nulla, ma si inserisce in una lunga tradizione di immagini della bellezza. E allo stesso tempo, il suo modo di stilizzare linee e volumi è talmente moderno da sembrare quasi design grafico contemporaneo.
Una mostra “instagrammabile”, ma non solo
Diciamolo: questa è una di quelle mostre che verrebbe voglia di fotografare dall’ingresso all’uscita. Ogni pannello è un potenziale wallpaper, ogni dettaglio una storia da condividere.
Ma se ci prendiamo il tempo di rallentare, scopriamo anche altro:
- la precisione quasi maniacale del segno;
- il rapporto tra figura e lettering, dove il testo non è mai un’aggiunta ma parte del progetto;
- la costanza con cui fiori, rami, simboli zodiacali e motivi naturali costruiscono un vocabolario decorativo personale, riconoscibilissimo.
Per chi non conosce Mucha, la mostra è una porta d’ingresso perfetta: chiara, spettacolare, ma al tempo stesso attenta a spiegare contesto e motivazioni.
Per chi lo ama da sempre, è l’occasione per vedere riuniti tanti capolavori provenienti dal Mucha Museum di Praga e da altre collezioni internazionali.
Perché consigliamo di andarci
Noi la consigliamo a:
- chi ama la Belle Époque e vuole viverla in modo immersivo;
- chi lavora (o sogna di lavorare) in grafica, illustrazione, moda, design e vuole studiare da vicino un maestro della comunicazione visiva;
- chi cerca una mostra “bella” in senso pieno, capace di piacere anche a chi non è un frequentatore abituale di musei.
Uscendo da Palazzo Bonaparte, dopo aver fatto l’ultimo giro nel bookshop pieno di stampe e cataloghi, abbiamo la sensazione che Mucha ci abbia lasciato qualcosa di molto attuale: l’idea che la bellezza non sia solo ornamento, ma linguaggio potente, capace di influenzare il nostro modo di guardare il mondo.







